
Favaretto e baccalà sono un binomio riconosciuto e inscindibile, non più solo in Veneto. Parliamo di Franco, titolare e chef del Baccaladivino a Mestre (Ve), che oltre vent’anni fa, nello stesso edificio lanciato come drogheria e gelateria dal nonno Pio nel 1934, ha creato, con la moglie Paola Scandagliato, il suo regno di merluzzo. Ambasciatore per la cultura e diffusione dello stoccafisso nel mondo per la Norge (commissione Norvegese per i prodotti ittici), docente Alma, cofondatore della Dogale Confraternita del Baccalà Mantecato e Testing Chef per l’azienda Tagliapietra e Figli Srl, maggior importatore di stoccafisso d’Italia, da anni esporta competenza e passione da un continente all’altro. Una statura professionale riconosciuta che gli è valsa ad ottobre scorso, durante una cena ecumenica sul tema paste fresche, ripiene e gnocchi organizzata dalla delegazione di Mestre dell’Accademia Italiana della Cucina, la consegna del “Diploma di Buona Cucina” consegnato dal delegato Franco Zorzet. Una vocazione che nasce da bambino nel retrobottega del negozio di alimentari dove il papà Ottavio custodiva gli stoccafissi ed è proseguita all’istituto alberghiero Maffioli di Castelfranco Veneto. Il baccalà di Franco non è più solo “poenta e tocio” come lo ricorda e com’era solitamente presentato e conosciuto nelle versioni tradizionali alla vicentina o mantecato. Basti pensare che il Festival Triveneto del baccalà giunto quest’anno alla decima edizione, del quale Franco è uno tra gli storici fondatori, ha portato alla competizione centinaia di ristoranti e chef che hanno trasformato e proposto il merluzzo in migliaia di ricette differenti. Non si contano i viaggi di Franco nella patria del baccalà, le isole norvegesi Lofoten, località con le quali ha stretto un vero e proprio gemellaggio gastronomico.
“Io sono il primo cuoco della famiglia” ricorda Favaretto. “Mio nonno grossista di generi alimentari aprì un negozio alla Gazzera, frazione di Venezia – Mestre esattamente dove oggi si trova il ristorante. Purtroppo morì giovane e mio padre che era all’ultimo anno di liceo ha dovuto mollare la scuola per seguire con i fratelli l’attività di famiglia che poi è diventata pizzeria e gelateria artigianale. Ventisette anni fa loro si sono ritirati ed io sono subentrato trasformando il tutto in cucina e ristorante gourmet. La conoscenza dello stoccafisso mi ha cambiato la vita e da li il locale è diventato 95% ristorante e 5% pizzeria”. Dopo la scuola alberghiera, sempre ai fornelli dall’età di quattordici anni, ha fatto esperienza nelle cucine di mezza Europa.
Mai pensato di fare altro? “Io ho iniziato cucinando il gelato (all’epoca si cucinava come una sorta di budino) in piedi sopra una sedia perché non arrivavo al fornello. Sono nato col dna del cuoco così com’è nato Pietro, l’ultimo di tre figli, che ha quindici anni, frequenta la scuola alberghiera e già si destreggia in cucina con discreta autonomia. Io non avrei mai potuto seguire un altro percorso professionale nonostante la contrarietà di mio padre e così, probabilmente, pure lui”.
Se potessi tornare indietro nel tempo c’è qualcosa che cambieresti rispetto agli esordi? “No! Quando avevo sei o sette anni il mio premio settimanale era portarmi a vedere la battitura dello stoccafisso prima dell’ammollo. E poi negli anni la curiosità e la passione per il merluzzo sono aumentate grazie anche alla frequentazione con Ermanno Tagliapietra e al primo viaggio alle Lofoten, vent’anni fa circa, che mi ha cambiato prospettiva e vita professionale. Comunque in cucina non si finisce mai di evolvere, di creare. Ricordo le perle di saggezza apprese dal maestro Gualtiero Marchesi nelle rare occasioni in cui ho avuto il privilegio di mangiarci assieme. In particolare quando sosteneva che la bravura di chi cresce col tarlo di voler fare il cuoco e ha la fortuna di essere nato e vissuto in Italia è quella di costruire pietanze equilibrate con al massimo cinque ingredienti, tutti da avvertire al palato, e poi come si dice in veneziano non “sbrodegare” cioè non fare pasticci, lavorare pulito. Il nostro è sempre un gioco, una passione da assecondare. Il problema del ristoratore deriva piuttosto dalla gestione economica e contabile dell’azienda che è sempre più difficile che cucinare. Ogni mattina tra tasse, controlli, personale è un supplizio. Chi non chiude è un gladiatore”.
Cosa significa per te adesso evoluzione? “Ho 58 anni e faccio questo lavoro da 44. Ho sempre visto e continuo a vedere un’evoluzione, una crescita, una prospettiva. Vent’anni fa sono stato il primo cuoco veneziano a partecipare alla trasmissione “La prova del cuoco” di Antonella Clerici. Adesso in tv si trovano cuochi dappertutto”.
Se immaginassi te quando avevi quindici anni e guardi tuo figlio adesso, cosa vedi di simile e di diverso? “Beh, lui ha la strada spianata. Ha avuto la fortuna e allo stesso tempo la sfortuna, intendo per chi è rapito da questo mestiere, di trovarsi inserito in questo contesto dalla nascita. Io non l’ho mai forzato ma tra andare un po’ a zonzo e la cucina, sceglie quasi sempre la cucina. Io agli esordi ho lavorato in cucine dove non ti insegnavano nulla, dovevi lavorare e imparare da solo tra angherie e forzature. Oggi la mia generazione di chef e quella successiva tutti i giorni segue i giovani e insegna loro come e cosa fare in cucina. E poi al giorno d’oggi ci sono migliaia di corsi di cucina, scuole. Ai miei tempi ste cose non esistevano”.
Com’è cambiato il cliente? “Ognuno apre la porta al mattino ed ha i suoi clienti. Sono loro che ti scelgono. Il cliente adesso è più preparato di un tempo. Tra corsi di cucina, di sommellierie, trasmissioni, giornali, arrivano con un bagaglio di conoscenze e di aspettative. E’ importante capirne i gusti, le pretese. Bisogna essere un po’ psicologi. Io ho il mio esame giornaliero ma sono sempre molto sereno”.
Cosa ti piacerebbe sperimentare adesso e cosa suggeriresti a tuo figlio di approfondire? “Le cose che mi piacciono le faccio. Da sempre. Prevale la passione e l’entusiasmo. Una cosa che mi ha sempre attirato è l’apertura di un locale, non troppo grande, a Venezia città. Per quanto riguarda mio figlio e i suoi coetanei e colleghi suggerirei di viaggiare molto, lavorare in luoghi e cucine diverse per aprirsi la mente. Non si può nascere in una cucina e morire nella stessa”.
Il menù della serata

