La venerazione del vino ai limiti dell’idolatria. La cerimoniosità quasi mistica delle degustazioni, la sacralità nel racconto, nella rappresentazione di un vino. Un alimento che diventa oggetto di devozione e di liturgia. Uno status symbol. Quante volte abbiamo sentito e letto critiche mirate a stigmatizzare gli eccessi che gravitano attorno al vino convenzionale? Molte! E quante altre volte abbiamo ascoltato i profeti ortodossi della new age enologica indugiare sul vino naturale, biodinamico, addirittura olistico? Altrettante!


In mezzo ci stanno le diverse nicchie di mercato da aggredire, le differenti strategie di marketing da affinare, lo story telling corretto da costruire. Ma sempre di oggetto di devozione si tratta. In media stat virtus? Forse! Una terza via? Verrebbe da dire l’astemia come forma di ascetismo2.0. Eppure ci sono luoghi in cui la viticoltura, più che il vino che ne è conseguenza, diventano strumento, non oggetto, di culto. Di regola monastica. Vale per padre Epifanios e i suoi vini del Monte Athos. Vale anche per i monaci benedettini dell’Abbazia di Praglia a Teolo (Pd) sui colli euganei, la più grande comunità d’Italia retta da ottobre di quest’anno da padre Stefano Visintin. Tra i labores prescritti la vitivinicoltura ha sicuramente una storia a sé. Ma qui si punta al pareggio di bilancio, nessuna speculazione. E al mantenimento dei cinque posti di lavoro applicati nell’azienda agricola abbaziale. Non si specula neanche sul vino e sulla vite: non si forza, non si tradisce. Si accompagna, dalle radici al calice. La liturgia delle lune come la liturgia delle ore. Tanto per dire, solo per scegliere il liquer de expedition per rabboccare le bottiglie di metodo classico cuvee (chardonnay, garganega, raboso piave) dopo degorgement è stato indetto un “conclave” con dieci monaci che alla ceca, con tanto di extra omnes (l’agronomo – cantiniere – camerlengo compreso), hanno scelto, tra più campioni, quello meritevole di impreziosire con le sue caratteristiche organolettiche lo spumante abbaziale. Solo due persone conoscono la ricetta.

Il primo documento che lega la viticoltura all’Abbazia, fondata nel 1080, risale al 1130, ma è sul Trattato dell’Agricoltura di Pietro Dé Crescenzi del 1304 che troviamo esplicita menzione della schiava e della garganega come vitigni del territorio. Nel 1500 i monaci gestivano duemila ettari tra conduzione diretta e mezzadria (tra questi i Domini di Bagnoli). E va sottolineato come ad ogni contratto di mezzadria imponessero un impianto di viti e di ulivi. Nel 1810 con la soppressione degli ordini religiosi imposta da Napoleone si perdono conoscenze e tradizioni. E nel 1867 con l’annessione del Veneto all’Italia tutta la comunità viene nuovamente sciolta, allontanata e trova rifugio a Daila (Istria) allora territorio austriaco. Poi però, nel 1900, imposero ai monaci, esuli in Istria, di acquistare l’Abbazia e nel 1904 due frati tornarono a Praglia seguiti anni dopo dagli altri cacciati con l’avvento di Tito nella ex Jugoslavia. Arrivando ai giorni nostri, negli anni ottanta del secolo scorso l’Abbazia vinificava mille ettolitri circa ed era un viticoltura chiusa ed obsoleta governata da l’unico monaco autorizzato ad entrare in cantina. Con la sua morte nel 1985 viene chiusa la cantina. Dal 2000 la ripartenza tornando a condurre i terreni dati in affitto e dal 2005 con la ristrutturazione delle cantine fino alla prima vinificazione del 2011. L’obiettivo, sottolinea l’agronomo – cantiniere, non è e non sarà mai il guadagno ma il consolidamento di entrate da destinare alla carità oltre che al sostentamento della comunità monastica. Monaci che, per inciso, per quanto riguarda il vino consumano i ritagli di famiglia: bianco e rosso indistinti, non esattamente premiere selection. Pur in assenza di certificazione il lavoro in vigna e in cantina, sostengono, è più che biologico stante l’attenzione all’uso dei trattamenti antiparassitari (usano l’estratto di pompelmo) su vigne che hanno un’età media di dodici anni circa e di additivi nei vini. Si punta ad un vino senza difetti, gradevole, con un minimo di appeal commerciale usando più la fisica in cantina, come la gravità e gli sbalzi termici, che la chimica enologica. Questo implica costi e perdite, ma la coscienza, puntualizzano, chiede questo.

Una superfice vitata di dodici ettari circa (45mila bottiglie) con tutti i più comuni virtigni autoctoni ed internazionali, tra i quali un piccolo vigneto a pinot noir sul cucuzzolo del Monte della Madonna (la superficie vitata più in alto dei colli euganei – 520 metri slm) dove c’è un piccolo monastero (tre a turno i monaci stanziali) che fa riferimento all’Abbazia di Praglia. Ma oltre a questo interessante è il progetto di recupero e rilancio, mentalità diffusa e condivisa con buona parte dei viticultori euganei, di alcuni vitigni autoctoni come Corbina, Corbinona, Cavrara. Durante la vendemmia i monaci partecipano ai lavori sempre rispettando gli impegni liturgici e le altre attività. Dal recupero di un vecchio locale cisterna dove veniva convogliata e raccolta l’acqua piovana potabile, sono stati ricavati i locali destinati all’affinamento. Temperatura e umidità sono costanti per la gran parte dell’anno (17° C) ma nel caso aumentino troppo intervengono con la climatizzazione.

Nell’Abbazia di Praglia si trova tutto quanto sono le produzioni tipiche monastiche che affondano le radici della conoscenza e della pratica produttiva in secoli di studi e attività di laboratorio: miele, tisane e infusi, cosmetici e rimedi naturali sono alcuni dei prodotti venduti nel negozio abbaziale. Oltre a questo svetta l’opera di restauro e conservazione del libro e di gestione, con apertura al pubblico, di una biblioteca nutrita e interessante. Sala congressi e foresteria per quanti volessero soggiornare e vivere dei veri e propri ritiri spirituali con la comunità monastica, completano le attività sviluppate nell’Abbazia.
Per quanto riguarda i vini, premesso che tutte le uve sono raccolte manualmente, partiamo certamente dal metodo classico. Due le versioni: una cuvée con parti uguali di Chardonnay, Garganega, Raboso Piave che diventa il Domus Abbas (extra brut e brut nature 36 mesi sui lieviti) e dal 2014 un Raboso Piave in purezza, Emeritus, sboccato dopo i trenta mesi ma ancora in fase sperimentale e con la convinzione di poterlo migliorare allungando l’affinamento sui lieviti fino ai sessanta mesi. Entrambi gradevoli, l’impronta del raboso si sente e soprattutto nella versione 100% svettano i sentori minerali, quasi sulfurei, di carbone e di affumicatura. Il Remuage? Completamente manuale.


Decanus, rosso riserva colli euganei doc, uvaggio di cabernet sauvignon e merlot (80%) si affina in botti di rovere per 24 mesi. Al naso svettano i frutti a bacca rossa e un’interessante nota balsamica e gessosa. In bocca si conferma un vino equlibrato, di corpo, di buona persistenza aromatica.


Solemnis (fermentazione in acciaio), colli euganei fior d’arancio docg, moscato giallo secco, dal colore giallo paglierino carico, abbastanza complesso nel ventaglio aromatico che spazia, al naso, dai frutti, anche agrumi, ai fiori e soprattutto alle erbe aromatiche in particolare salvia. Asciutto e fresco al palato.


Claustrum: vino passito dal colore luminoso, ambrato. Frutta esotica, anche candita, emergono sentori iodati, balsamici e di parziale tostatura. Dolce e fresco, è il compagno migliore per un momento intimo abbinabile alla biscotteria. Vinifica in legno, matura in barrique per 18 mesi. Le uve appassiscono parzialmente in fruttaio.





Buongiorno, articolo molto interessante. Sto facendo un progetto per l’università di padova per un nuovo piano di gestione del Parco Colli Euganei, di cui l’Abbazia fa parte. Vorrei sapere per quanto riguarda il dato delle 45000 bottiglie, si sa quante ne venivano prodotte prima (quindi se la produzione negli anni è aumentata o se è rimasta costante)? E per calcolare questo dato, che fonti ha utilizzato? La ringrazio.
Quello che sono riuscito a raccogliere e’ quanto mi e’ stato raccontato. Altro non so. Scusi per la risposta tardiva. Mi era sfuggito il commento