L’effetto Covid su enogastronomia e turismo non è stato e non sarà lieve, anzi. Rappresenta però anche la sfida di rimettere al centro alcune priorità su cui poter tratteggiare, in visone prospettica, nuovi scenari. In primo piano, la riscoperta e valorizzazione delle tradizioni e tipicità locali. Ma ci vorrà anche più digitalizzazione, più formazione, un nuovo e diverso storytelling; più turismo di prossimità, più curioso e meno massivo e conformista
Se ne sarebbe volentieri fatto a meno, ma se una cosa è certa è che il Covid ha cambiato drasticamente il mondo in tutte le sue dinamiche: fisiche e metafisiche, politiche, economiche, occupazionali, sociali. Un altro Medioevo cupo e difficile da interpretare ci accompagnerà per anni prima di un nuovo Rinascimento in tutti i segmenti produttivi. Non ultimo, anzi, quello turistico, ricettivo e della ristorazione che tanto pesa nei bilanci dello Stato e che versa in una situazione drammatica, ulteriormente aggravata dalle nuove e diverse restrizioni su orari e aperture e dai nuovi lock down territoriali. Soprattutto nelle città d’arte.

Ne abbiamo parlato qualche settimana fa, in uno scenario completamente diverso, con alcuni tra i protagonisti di questo mondo che si sono sforzati di immaginare una luce in fondo al tunnel, di azzardare una visione di prospettiva. Ma il contesto generale è precipitato, in Italia come nel resto d’Europa, travolto da una seconda ondata che ha tutte le parvenze di uno tsunami. I comparti food & wine e hospitality piangono lacrime amare e protestano per una stretta che ai governanti è apparsa ineludibile.
Ma gli operatori del settore ne sono convinti: quando questo sarà possibile sapranno rialzarsi dalle macerie e riproporsi al mondo dei turisti e dei gourmet riscoprendo la storia millenaria, le tradizioni popolari, il folclore, e ripartendo dall’immenso patrimonio artistico e culturale del Bel Paese che è anche cibo e vino.
Come farsi trovare pronti? Alcuni protagonisti dell’enogastronomia nelle città d’arte che abbiamo interpellato – Venezia e Firenze – hanno le idee chiare. Servirà più digitalizzazione, più formazione, un nuovo e diverso storytelling; più turismo di prossimità, più curioso e meno massivo e conformista. Meno mordi e fuggi. Insomma, la bellezza un giorno ci salverà ancora nonostante il crollo del turismo, che in Italia vale il 13% del Pil, sia rovinoso. Secondo uno studio recentemente divulgato dall’Istituto Demoskopika, nel 2020 sono a rischio 18 miliardi di spesa: 9,2 per la contrazione dell’incoming e 8,8 per le mancate vacanze degli italiani. Il 70% (12,6 miliardi di euro) risulterebbe concentrato in sei regioni: Veneto (-65% sul 2019), Lombardia (-60%), Toscana (-59,2%), Lazio (-55,8%), Emilia Romagna (-55,6%), Trentino Alto Adige. Il Veneto il più penalizzato con 9,3 milioni di arrivi in meno rispetto al 2019, in un’Italia che ha perso 48 milioni di arrivi (-51,1%) e oltre 173 milioni di pernottamenti (-52%).
VENEZIA
Oggi, al netto delle enormi difficoltà del momento storico, il rinascimento culinario e ristorativo sembrerebbe trovare rifugio nelle isole e chiedere lentezza, ospitalità, umiltà, tradizione, cibi e bevande di laguna in grado di evocare un passato glorioso e disegnare nuovi orizzonti
Il rapporto tra la Serenissima e le epidemie ha segnato la storia della città nei secoli tra il 1300 e il 1500. Pensiamo alla quarantena (quarantina) introdotta a Venezia per definire il periodo di isolamento in mare aperto imposto agli equipaggi delle navi di ritorno prima di approdare in laguna; alla fondazione del primo lazzareto in un’isola (oggi San Lazzaro, l’isola degli Armeni); alla costruzione della Chiesa del Redentore quale ex voto per la liberazione della città dalla peste.
Adesso tocca al Covid imporre a questa città unica al mondo, la perdita di milioni e milioni di visitatori. Un’economia in ginocchio. Prima ancora della pandemia, il tema della mole e della qualità del turismo nella città lagunare è stato per anni sulla bocca di tutti. Oggi, al netto delle enormi difficoltà del momento storico, il rinascimento culinario e ristorativo a Venezia sembrerebbe trovare rifugio nelle isole e chiedere lentezza, ospitalità, umiltà, tradizione, cibi e bevande di laguna in grado di evocare un passato glorioso e disegnare nuovi orizzonti.
Arrigo Cipriani, il decano dei ristoratori, emblema degli “Harry’s” nel mondo ed espressione autorevole della tradizione gastronomica veneziana e della cultura della città, spariglia subito le carte. “L’eno non ha nessuna portata con la gastronomia. Il vino è un contorno, spesso piacevole e importante ma io, ad esempio, sono astemio da sette anni e mangio ugualmente volentieri. Nei nostri venticinque ristoranti nel mondo non c’è un sommelier, professione rispettabilissima. Abbiamo in carta bottiglie dai venticinque ai settecento euro, guardando con attenzione all’enografia mondiale, ma deve essere il cliente che chiede, non noi che consigliamo. Parliamo quindi di gastronomia e dell’aspetto più importante della ristorazione che per me resta l’accoglienza. Noi italiani siamo in grado di esprimere un’ospitalità unica al mondo che si lega alla nostra storia e al nostro immenso patrimonio culturale. E questo deve riflettersi anche nell’ospitalità, nell’accoglienza, nel servizio a un cliente libero, consapevole, non robotizzato. Da questo punto di vista non amo gli chef e le stelle che sono spesso il frutto del narcisismo di un cuoco, escludo gli Alajmo che ritengo straordinari, e neanche i menù degustazione. I gusti che ci appartengono sono quelli tipici delle vere trattorie e da noi sono la trippa, il baccalà, il fegato alla veneziana. E il menù che abbiamo a Venezia è proposto anche a Dubai, certo senza il maiale, con un successo enorme. Ovviamente con questo fiume di turisti mordi e fuggi che da anni invadono Venezia sono sorti tanti ristorantini che in realtà non sono tali per mille motivi e che adesso versano in enormi difficoltà. Ma non vedo rinascite della gastronomia, che potrebbe pur esserci se vogliamo riflettere profondamente sulle nostre vocazioni, storia, cultura e tradizione, senza paura. Avverto questa voglia di Venezia nativa, isolana, lagunare. È il momento per svelare la falsa ristorazione e gastronomia quella che non da il giusto peso all’accoglienza, né tiene conto dei gusti “.

Chi propone tradizione da cento anni e ne ha sempre fatto motivo di vanto e distinzione è la storica Trattoria da Romano, dal nome dello storico fondatore Romano Barbaro, nata nel 1920 nella splendida isola dei colori e dei merletti che è Burano. Romano ha continuato l’attività del padre in un’osteria dedicata ai clienti del posto, per lo più pescatori, pochissimi i turisti. Il boom negli anni Cinquanta, con lo sbarco in un’isola piena di umanità degli artisti scartati dalla Biennale e che trovavano rifugio da Romano per un fritto misto e un po’ di frutta. “Giovani interessanti, innovativi, delusi – racconta Gigi Seno, marito di Rossella, nipote di Romano – che trovavano nell’isola un rifugio vivace, incantato, con settemila abitanti e zero contatti col mondo. E poi sono arrivati poeti e letterati e ognuno voleva vedersi esposto da Romano al punto che oggi contiamo 450 quadri tra i quali Vedova, De Pisis e disegni di Mirò e Matisse. Abbiamo sempre proposto pescato locale, fritto o alla griglia, con verdura e frutta degli orti lagunari, in particolare Mazzorbo”. Poi negli anni il menù si è arricchito. Immancabile il risotto al gò (ghiozzo) e al nero di seppia. “E siamo ancora qui, nello stesso posto, dopo un secolo e quattro generazioni – continua -. Questa continuità è un valore aggiunto tanto più se parliamo di una Venezia sacrificata al business e al turismo di massa. E spesso pure i locali storici non sono più in mano a famiglie con un’anima, ma sono diventate società che potrebbero fare ristorazione qui come in qualsiasi altro posto turistico. Prima del Covid Venezia è stata invasa dai turisti con numeri impressionanti. E parecchi di questi poi arrivavano a Burano. Ma la fragilità di Venezia e la delicatezza dell’isola richiederebbero un approccio più attento e rispettoso e bisognava intervenire prima. Adesso dobbiamo tutti rimboccarci le maniche perché al di la del mese di agosto, che ha portato un po’ di movimento di turismo italiano, a settembre siamo ricaduti quasi al periodo del lockdown e le nuove restrizioni hanno ulteriormente peggiorato le cose. Una volta sconfitto il virus Venezia ripartirà e tornerà la città unica al mondo che tutti ambiscono a visitare. Certo, nella sfortuna dovrà essere l’occasione per salvaguardarla di più e trattarla meglio creando economia e quindi occupazione di qualità. E questo vale anche per la cucina perché noi partiamo dal presupposto che la migliore è sempre stata quella della mamma e della nonna e noi proseguiamo su questa strada: cucina tradizionale senza troppi fronzoli. Mi amareggiano quei ristoranti che ambiscono a stelle e pianeti ignorando gli usi e i costumi gastronomici tipici del luogo dove si lavora. E poi, quando si va a mangiare si va perché si ama stare in convivio con la famiglia, con gli amici, con le persone care e al giusto prezzo. In certi locali sembra quasi regnare un silenzio deferente per le stelle. Ci sono mille prudenze all’etichetta, alla cornice e magari manca l’aspetto gioviale, felice, del desco e della compagnia dei commensali. Si perde la rilassatezza e c’è quasi un’ansia da prestazione”.

Un’altra realtà storica della ristorazione veneta sono gli Alajmo. Stellati col padovano “Le Calandre”, gestori tra gli altri dello storico Gran Caffè Quadri in Piazza San Marco a Venezia e da pochi mesi, in società con altri, anche dell’Hosteria In Certosa nell’omonima isola lagunare, i fratelli Raffaele e Massimiliano portano avanti l’attività di famiglia. “Intanto va detto che in Italia non esistono città che non siano d’arte – puntualizza Raffaele Alajmo -. Se poi guardiamo a Venezia parliamo di una città che non ha nessuna fonte di reddito diversa e alternativa dal turismo. Non c’è business, non c’è una clientela che viene per lavoro. Esiste una clientela che viene per piacere siano essi viaggi in giornata o per più giorni. Non esiste nessun altro caso simile in Italia per cui il crollo di lavoro e di fatturato della città è impressionante e ulteriormente aggravato dalle ultime restrizioni. Si viaggia in questo periodo ad un quarto dell’incasso degli anni precedenti. Oggi come oggi gli alberghi hanno lavorato nei periodi migliori al 50% della disponibilità. Adesso sono al 10% durante la settimana. Numeri mai visti a Venezia e di conseguenza minor numero di persone che girano per la città e di clienti. A Padova, che resta città d’arte a suo modo, il calo di lavoro, prima delle nuove e ulteriori restrizioni è stato meno impattante che a Venezia perché ci arrivi con la macchina, ci sono un sacco di aziende e persone che ci lavorano, che passano e si fermano a consumare, a fare acquisti. Tutte le città provinciali resistono meglio. Soffrono le grandi città come Milano e Venezia, che è una splendida isola pedonale solo per turismo. Per quanto riguarda l’Hosteria In Certosa – prosegue Raffaele – abbiamo avuto la possibilità di sviluppare questo meraviglioso progetto e abbiamo deciso di investire sulla laguna veneziana che gode di spazi unici, bellissimi, rilassanti, in linea con le tendenze di oggi cucite su un cliente che vuole aria aperta, libertà, niente costrizioni. Qui abbiamo la possibilità di sviluppare tutta la produzione ortofrutticola e vogliamo mettere delle arnie per produrre il miele. Per quanto riguarda il vino so che anticamente c’era un vigneto che gestivano i frati. Stiamo facendo degli studi per capire se sia possibile avere qualche filare, normativa permettendo, di vitigni autoctoni. Certo c’è più un interesse storico e culturale che produttivo, non parlando complessivamente di chissà quanti ettari ed ettolitri. Il nostro rapporto col territorio parte dalla lavorazione dei prodotti ortofrutticoli lagunari e dall’utilizzo del pesce di laguna. E la proposta vuole essere attenta alla tradizione anche innovando le ricette tipiche. Credo che in futuro ci sarà un turismo e uno sviluppo diverso legato alla laguna”.
FIRENZE
Gli ingredienti principali di una ripartenza in grado di guardare veramente al futuro, saranno la riscoperta della tradizione enogastronomica, della tipicità e delle incomparabili materie prime locali. Ma ci vorrà anche più formazione, più tecnologia e un nuovo story-telling

Modello di città d’arte anche Firenze segna il passo. Il turismo manca, le restrizioni pesano, le disponibilità economiche sono inferiori e la ristorazione langue. “C’è stato un momento di grandissima vivacità per tutta l’estate in Versilia – sottolinea Gianni Mercatali, da quarant’anni operaio della comunicazione come ama definirsi, professionista che come pochi conosce Firenze, la sua cucina e le sue tavole -. Si faceva fatica a trovare posto nei ristoranti, compresi quelli degli stabilimenti balneari. Per quanto riguarda invece Firenze città, il Covid e le conseguenze della pandemia sono state disastrose perché i fiorentini erano in vacanza e i turisti mancavano. Molti ristoranti non hanno aperto neanche durante l’estate e lo stesso alcuni alberghi con ristoranti stellati. Un settore fortemente penalizzato anche dai provvedimenti restrittivi presi negli ultimi periodi. Soffrono i ristoranti piccoli per motivi di spazio e distanziamento, soffrono le pizzerie e soffrono pure quelli di altissimo livello perché sono diminuite le possibilità di spesa. Non so come e quanto questa crisi possa essere preludio a un nuovo rinascimento enogastronomico e ristorativo perché ci vorrebbe innanzitutto entusiasmo che è quello che manca. Devo dire che ci sono anche ristoratori e locali che non si sono fatti sopraffare dalla situazione come Gianfranco Vissani, Davide Oldani, L’Enoteca Pinchiorri, Cibreo e altri. Soggetti che sono delle eccezioni. Comunque sia la riscoperta della tradizione enogastronomica, della tipicità e delle nostre incomparabili materie prime saranno gli ingredienti principali di una ripartenza in grado di guardare veramente al futuro”.

Il Cibreo, felice intuizione di Fabio Picchi padre di Giulio, oggi punto di riferimento di una realtà poliedrica che conta ristorante, caffè, trattoria è sicuramente tra i punti di osservazione privilegiati per capire la situazione a Firenze. “La Firenze del periodo Covid sta vivendo un periodo molto duro – afferma Giulio Picchi – e la pandemia ha colpito in maniera ancora più forte la ristorazione che più si era dimenticata dei prodotti e dei clienti del proprio territorio. Quella ristorazione che non ha riaperto perché si era venduta al turismo a pacchetti. Quelli invece abituati a lavorare con i fiorentini e i toscani stanno resistendo nonostante le restrizioni. Hanno un calo importante, ma non dell’ordine dell’80%. Noi siamo in una terra di mezzo perché abbiamo cinque aziende ristorative e ci siamo giovati di una clientela regionale. Tuttavia ci manca il 30% di turismo di qualità che si rintracciava grazie alla città internazionale. A me dispiace perché tutti quei posti chiusi significa dipendenti a casa, però la situazione ci obbliga a ripensarci e se i ristoranti funzioneranno al di là del turismo vorrà dire che avranno una marcia in più. La ripartenza, quando sarà, dovrà essere più dinamica e flessibile. Ci vorrà un uso maggiore e migliore delle nuove tecnologie perché sapersi raccontare bene è diventata una chiave fondamentale. Io ho sempre inteso il nostro lavoro come una missione, un presidio delle nostre produzioni e delle nostre materie prime soprattutto contro il conformismo dilagante. Chi porta a tavola una pietanza buona difende e racconta una storia, una cultura, un territorio, una tipicità. Questo avveniva prima e deve avvenire ancora di più oggi. In più serve un’alleanza tra i produttori e chi poi vende e trasforma il prodotto per affrontare in maniera più forte e determinata il conformismo dilagante. Oggi è diventato fondamentale partire dalla salvaguardia delle produzioni tradizionali e delle tipicità per difendere il territorio dalla cultura massificata, impersonale. Dietro a un pomodoro e la gente se lo dimentica, ci campano cinque famiglie. Per me oggi servire un pesce che ha preso l’aereo è un controsenso, non per sventolare il chilometro zero ma per avere certezza che i soldi che spendo non mi diano solo un prodotto ma mi permettano di innestare risorse economiche anche nel territorio dove opero. Penso che questi soldi poi siano destinati a tornare ai miei figli, alle generazioni future”.
I dati della Fipe. Pubblici esercizi, contrazione dei fatturati non recuperabile a breve
Le conseguenze più preoccupanti della pandemia, secondo la Fipe – Federazione italiana dei pubblici esercizi sono e saranno quelle sull’occupazione. Solo ad agosto e solo per alberghi e ristoranti sono state autorizzate 44 milioni di ore di cassa integrazione, corrispondenti a 254 mila mensilità a tempo pieno. Da gennaio a maggio 2020 le assunzioni nei settori turismo e terme si sono ridotte dell’80% per i contratti di lavoro stagionale e del 60% per quelli a tempo determinato. “Abbiamo perso nel primo semestre 2020 – ricorda Luciano Sbraga, direttore Fipe – 19 miliardi di fatturato come settore della ristorazione in senso lato (ristorazione, bar, ristorazione collettiva). È un dato consolidato aggiungendo al quale le previsioni del secondo semestre, considerate le ulteriori restrizioni, parliamo di perdite di fatturato per oltre 24 miliardi di euro su un totale di 96. Una contrazione devastante, che non si ricorda nella storia. Non c’è nelle statistiche di questo settore. Il tutto con un effetto particolarmente penalizzante in tutte le città, soprattutto quelle più grandi e abitate, e in particolare nelle città d’arte che hanno nel turismo, in gran parte internazionale, una componente della domanda importante. Se togliamo alle attività commerciali una fetta enorme di turismo, le restrizioni sulle aperture, l’effetto dello smart working che chiamerei home working e la mancanza di presenze legate alla mobilità business, è evidente la sofferenza soprattutto nei centri storici. Da un calcolo approssimativo – continua Sbraga – abbiamo considerato che si stiano tagliando almeno 5 miliardi di euro di acquisto di materie prime dalla filiera, sia di carattere agricolo che industriale”. Una perdita che non si riuscirà a recuperare nei prossimi mesi o nel prossimo anno anche con un rimbalzo importante dei consumi. “Il tema del turismo – specifica – lo dovremo rimandare al 2022 se non addirittura al 2023”.
Il Covid ha costretto gli imprenditori a fare delle riflessioni. “Quando tutto va a gonfie vele – sottolinea Sbraga – anche gli imprenditori non particolarmente brillanti cavalcano l’onda. Ma quando il mare è tempestoso bisogna essere dei bravi marinai. È chiaro che in questa situazione la differenza la farà la capacità imprenditoriale e professionale perché sussidi e incentivi non potranno bastare. Appena sarà possibile il primo aspetto da accelerare nel settore è la digitalizzazione. Poi ci sono nuove e diverse linee di business come il delivery, il take away, ecc. E poi c’è tutto il tema della riduzione dei costi che vuol dire razionalizzare i menu, accorciandoli e aiutando i clienti a sfogliare un elenco snello e fruibile, non un libro”. Proprio in questi giorni la presidenza Fipe-Confcommercio, ha sottolineato che “gli effetti della pandemia da Covid-19 stanno mettendo a repentaglio la tenuta economica del settore, l’occupazione (a rischio oltre 350mila posti di lavoro) e il futuro di oltre 50.000 imprese. Noi oggi siamo a terra ma non ci arrendiamo – sottolinea il presidente della Fipe-Confcommercio, Lino Enrico Stoppani –. Prima della pandemia davamo da mangiare a oltre 11 milioni di persone ogni giorno e vogliamo continuare a farlo”.
L’allarme di Italgrob
Crollo dei consumi fuori casa: dagli 86 miliardi di euro del 2019 ai 54,5 del 2020
Per la Federazione Italgrob e per la categoria dei distributori le nuove restrizioni e i lock down territoriali colpiscono un comparto che ritiene di aver applicato diligentemente i protocolli anticovid imposti dal Governo con l’avvio della Fase 2, in seguito alla prima serrata. “Protocolli di sicurezza, sanificazioni effettuate, distanziamento, riduzione dei posti nella ristorazione non sono misure sufficienti? – dichiara Vincenzo Caso, presidente di Italgrob -. Allora c’è da chiedersi a cosa siano serviti tutti gli investimenti fatti per adeguarsi agli stringenti protocolli di sicurezza. Gli aumenti dei contagi non sono dovuti ai locali Horeca, piuttosto c’è da interrogarsi sulle gestioni dei mezzi pubblici di trasporto eccessivamente pieni soprattutto nelle grandi città”. Una realtà, quella italiana dei distributori, che somma 5.200 imprese, di cui 1.800 specializzate nel settore food & beverage, con oltre 30mila occupati diretti. I numeri elencati da Italgrob, la federazione dei distributori Horeca di Confindustria, durante il recente meeting sulla crisi in cui versa il settore a causa del crollo dei consumi fuori casa, sono crudi, allarmanti, avvilenti. E non lasciano spazio ad interpretazioni: dagli 86 miliardi di euro del 2019 ai 54,5 del 2020 con una prospettiva di rimbalzo nel 2021 difficile da interpretare e comunque legata alla speranza di avere a disposizione un vaccino efficace e largamente distribuito. Le perdite maggiori secondo i dati diffusi da Marco Colombo, solution & innovation director di Iri, hanno penalizzato birre e bibite, aperitivi, ma anche le forniture di acque. Tutto diminuito di un terzo. Ma anche la flessione di vini e superalcolici è significativa: -28%. I canali di sbocco più importanti restano ristoranti e bar che segnano una perdita in valore nei primi otto mesi del 2020 del 34% circa. Pub, pizzerie, birrerie, discoteche e locali notturni addirittura peggio: -36%.