Il processo di canonizzazione mediatica del Cavaliere in atto non fa onore alla sua memoria. Eppure, è forse l’ultima, eccessiva liturgia di una seconda Repubblica che Berlusconi ha inventato e incarnato. L’agiografia di un uomo che ha fatto la storia eccitato dal martirio e bramoso di santità.
Si, si muore. Il decesso di Silvio, un uomo che uno dei suoi medici personali definì tecnicamente immortale è come racconta la livella, la famosa poesia di Totò: mette di fronte tutti all’unica irremovibile certezza e con essa ai dubbi, alle paure, al cortocircuito tra ragione e fede, qualsiasi fede, che accompagna l’ultima transizione. Quella sempre lì, sullo sfondo, quella che vorremmo occultare, obliare. Inimmaginabile per tanti di noi estimatori o meno della persona, cultori o meno della sua personalità, che anche Silvio potesse “andare avanti”. Più che altro che potesse dissolversi con lui l’idea stessa di ottimismo, di sole in tasca, di successo ed eccesso. Un “venditore meraviglioso” come direbbe Frank Battger, certamente un grande imprenditore, visionario come pochi. In sostegno e in dissenso da lui, dalle sue idee e costruzioni, si sono consumate vite, successi e insuccessi personali, carriere.
L’elenco dei suoi traguardi personali è noto e oggetto di rosario quotidiano per moltissimi chissà per quanto tempo ancora. Altrettanto delle sue “mancanze”. Ma è l’eredità politica, piaccia o meno, che ci accompagnerà a lungo. Il suo impatto con la politica dopo l’arcinota discesa in campo è stato dirompente. In un’Italia dilaniata da tangentopoli e dai suoi eccessi, in un mondo postcomunista che si accingeva a superare il muro di Berlino e la contrapposizione est – ovest, ha visto e conquistato uno spazio elettorale invisibile agli altri. Ha toccato corde e battuto sentieri ignoti ai più con gli strumenti a lui più consoni e usuali: comunicazione affabulante, disponibilità economica, sovraesposizione mediatica e grandissima capacità organizzativa e di mediazione. E ‘nata con lui una seconda Repubblica che ha esaltato l’immagine, il populismo, la narrazione dell’uomo solo al comando, dell’adulatore in grado di interpretare i bisogni degli italiani e di risolverne i problemi. Di coglierne e blandirne i desideri. Di essere amato o odiato. Di fendere l’elettorato e costruire su questo un maggioritario spurio e forzato. E un centrodestra perfetto per vincere le elezioni, non sempre per governare.
La sua costruzione non poteva che finire con lui. E con lui è finita la seconda repubblica, è finita la politica padronale dove partiti, alleanze e candidati venivano montati e smontati dalla sera alla mattina senza una classe dirigente che non fosse un piccolo e ristretto cerchio magico che ne ha accompagnato le fortune. L’etat se moi ma dopo di lui, forse, il diluvio. Da quindici anni almeno, da quando cofondai Veneto per il Ppe che nacque su queste convinzioni, vado dicendo che il più grosso limite di Berlusconi è stato questo. Non aver di fatto coltivato una classe dirigente, un partito che potesse raccoglierne e continuare il lascito ideale con congressi veri, una democrazia vera e vera rappresentatività e presenza nei territori. Ma questo, semplicemente non era nei suoi piani. Spero che quantomeno svanisca con lui anche la sbornia maggioritaria, l’antipolitica, certo populismo peloso e che si possa ritornare alla politica del confronto, delle idee, della rappresentatività, dei partiti, dei congressi. E che prenda piede una riforma del sistema elettorale proporzionale per quanto con soglia di sbarramento.
Mi dicono esserci qualcuno che brinda alla sua morte. Beh, eravate e siete dei poveracci. Ricordo in questo il grande esempio di Sandro Pertini che su Mussolini, lo scempio dei cadaveri da parte della folla e la vergogna di Piazzale Loreto disse: “Io, il nemico, lo combatto quando è vivo e non quando è morto. Lo combatto quando è in piedi e non quando è a terra”.