Nell’Italia a pois delle zone verdi e arancioni il significato del debito pubblico ci deve interrogare. Dobbiamo fare i conti col presente e col futuro ma se dimentichiamo il passato avremo già perso.
Consapevoli di zavorrare le generazioni a venire finché i creditori ce lo lasceranno fare, il nuovo e ulteriore debito italiano ed europeo con cui stiamo finanziando e finanzieremo per anni la tenuta sociale ed economica del nostro Paese, in ginocchio come altri a causa della pandemia, è il grande, ineludibile, universale “Patto sociale” che ci dirà una volta per tutte se sapremo essere comunità e Stato con disegni e orizzonti comuni e condivisi. E’ giusto! Ce lo chiede lo scheletro produttivo e imprenditoriale del Paese che versa in condizioni drammatiche. Ce lo chiedono i milioni di cittadini disagiati che ora più di ieri arrancano ai limiti della povertà. E’ responsabilità collettiva rispondere ognuno come può e per la sua parte.
Non è però che il debito pubblico spropositato e irrefrenabile non ci fosse già e che brillassimo per qualità dei servizi erogati, pensiamo alle carenze endemiche, strutturali della sanità, della pubblica amministrazione e della scuola. E con questo? E con questo, disposti al sacrificio “patrio”, dobbiamo chiederci una volta di più come lo stesso sia stato accumulato. Gli storici e gli economisti ci dicono che dalla fine degli anni settanta abbiamo finanziato prepensionamenti, baby pensioni, ammortizzatori sociali pluriennali, vitalizi e prebende varie, carrozzoni, che sono diventati sacche insostenibili di spesa pubblica e previdenziale se non di assistenzialismo e talvolta clientelismo, difficili da comprendere e giustificare nelle proporzioni con cui hanno esondato gli argini della convivenza e tolleranza. Oggi ancora di più. Quello non è stato “Patto Sociale”. Abbiamo voluto viaggiare in prima classe col portafoglio degli altri: i nostri figli, i nostri nipoti. Di intergenerazionale sono rimasti solo i conti da pagare per un debito che non ha accresciuto, in proporzione, il benessere generale o la qualità dei servizi.
In mezzo, dagli anni novanta che con tangentopoli, le sue forzature, le sue trame, le sue colpe ha azzerato una classe politica e dirigente, gruppi, gruppuscoli e formazioni post- ideologiche, ahinoi, che non hanno guardato alle future generazioni ma ai sondaggi e al consenso immediato con miopia e tracotanza del tutto fuori dal tempo e dallo spazio. Per decenni, fino ad oggi, non hanno affrontato e contenuto quel debito pubblico, anzi. In compenso ci hanno lasciato i cocci di una gioventù che si è arresa all’apatia politica, come se la democrazia, la rappresentatività, la repubblica parlamentare fino alle libertà fondamentali garantite e tutelate non fossero conquiste da difendere e rinnovare e vivificare continuamente, alla luce dei tempi e che non possono durare lo spazio di un tweet piacione ed estemporaneo. E ci ha lasciato orfani di partiti, di prospettiva, di pensiero forte, di voglia di partecipare e dibattere e schiavi dell’ignoranza e dell’antipolitica. “Lè tutto sbagliato, lè tutto da rifare”.
La storia non è passatismo nostalgico e inconcludente. E ‘ “magister vitae” dalla quale abbeverarsi e trarre insegnamento per declinare nuovo slancio e rinnovate responsabilità civili e politiche. Dobbiamo riscoprire i giganti e chiedergli se siano ancora disposti a portarci sulle spalle e a mostrarci prima di tutto il mondo delle idee.
Se non ora, quando?
GOB