
Pierluigi Gorgoni, relatore della serata dedicata all’analisi geo-sensoriale del corso superiore di degustazione organizzato da “Arte e Vino” al Ristorante La Bulesca a Selvazzano Dentro (Pd), ha superato sé stesso. Si può essere più o meno d’accordo sulla sussistenza e sull’importanza della mineralità come parametro di valutazione organolettica del vino, se la intendiamo come associabile alla composizione geologica dei terreni e loro diretta emanazione nel calice.
I minerali, ha sempre sostenuto tra gli altri il prof. Attilio Scienza, sono inodori e non “va identificato con un presunto gusto dei terroir. Lo si individua con espressioni quali pietra focaia ed è associato a caratteristiche di finezza, freschezza, persistenza, salinità; ma va escluso il ruolo prevalente dei sali minerali”. Ma che la composizione dei terreni insieme agli altri fattori incidano in misura determinante sul profilo sensoriale del vino determinandone il carattere, la longevità, la finezza e l’eleganza e lunghezza in bocca è fuori discussione. Partendo da questo assunto, e riprendendo le tesi sviluppate nel libro di Rigaux – Sangiorgi “Il vino capovolto” che danno molta importanza al gusto rispetto al naso, Gorgoni si è concentrato sulla consistenza intesa non come densità di un vino, viscosità, da valutare a “peso”, fortemente concentrato, palestrato, “parkerizzato”, ma come molteplicità di stimoli, qualcosa di simile alla complessità, che il vino può dare al palato. La mineralità è di bocca ed è la stoffa di un vino; è la coordinata principale del palato – navigatore, ne determina la mappa.

Tra i vini degustati abbiamo trovato esempi e conferme interessanti. Lo Chardonnay di Boillot a Beaune ed il suo sentore di camomilla insieme alle intense note agrumate, si devono all’argilla e a vigne di sessant’anni che solo li lavorano in quel modo. Lo stesso dicasi per il Trebbiano d’Abruzzo di Emidio Pepe su terreni argillosi e limosi e i profumi di pelle di pollo scottata. Ma è sul Pinot Noir di Vosne – Romanee 2016 di Florey, vin de village, ed il suo vigneto su gesso, sabbia e argilla che la consistenza del vino diventa finezza ed eleganza. Dieci ettari di vigneto e poi vinificazione con prima, breve macerazione a freddo e poi altre tre settimane senza rinunciare ai raspi. Il passaggio in legno viene fatto in tonneau per il 20% nuove.
Ho avuto occasione di scambiare due chiacchiere con Gorgoni. Di fargli una breve intervista in parte già divulgata. Mi piace riproporne alcuni stralci
Il tuo percorso di avvicinamento al vino e alla degustazione?
Ho iniziato a scrivere mentre frequentavo la facoltà di medicina all’università di Parma. Scrivevo un po’ di tutto, dall’informazione farmaceutica per una piccola casa editrice milanese e poi, più diffusamente, su quelle che da sempre sono le mie passioni: il cinema, il teatro, la musica e le materie umanistiche in genere. In seguito questa piccola casa editrice ha iniziato a pubblicare “Malpensa Express”, una rivista distribuita nei treni che dalla stazione di Cadorna a Milano arrivavano fino al neonato aeroporto di Malpensa. Sapevano della mia passione per la tavola e mi chiesero di scrivere alcuni pezzi di enogastronomia che avessero come costante le produzioni lombarde. Per me devoto di Veronelli fu una grande soddisfazione. E’ iniziata così! Poco dopo, nel 2003, Andrea Grignaffini, il direttore creativo di un periodico di settore ancora in gestazione, “Spirito diVino”, mi chiese di occuparmi stabilmente del racconto e della degustazione dei vini. Ho abbandonato Medicina e mi sono iscritto alla facoltà di Enologia a Milano che poi negli anni ho concluso. E questo mi ha permesso di coltivare anche un approccio scientifico al vino e di non indulgere troppo nella parte umanistica e narrativa. Vivevo in quegli anni tra Milano e Parma dove ho iniziato a collaborare con Giovanni Maestri dell’Enoteca Ombre Rosse e con Guido Cerioni e Mariella Gennari della Locanda Mariella, contribuendo con loro alla nascita di un locale a Parma unico nel suo genere, HiFi News Musica da Tavola, rivendita di vini e impianti di alta fedeltà, di insuperabile qualità artigiana. La Locanda Mariella, è tra l’altro un’osteria tra le più rinomate d’Italia per la ricerca delle materie prime e la passione. Un’oasi di cultura della tavola abbarbicata sull’appennino della Cisa. Un posto speciale al quale sono ancora molto legato e dove ho iniziato ad esprimermi. All’epoca, fondamentalmente mi occupavo delle degustazioni, scrivevo le presentazioni, disegnavo le mappe dei luoghi, iniziavo a dire qualcosa davanti ad una platea… In seguito, ho lavorato per dieci anni alla Guida dei vini de L’Espresso dove si valutava il vino con schede a punti di venti ventesimi.
L’hai mai incontrato il vino da venti ventesimi?
Io i 20/20 li ho dati. Più volte. Tra questi il Barbaresco Crichet Paje di Roagna annata 1999 che credo riconfermerei e poi il Trebbiano di Valentini annata 2008. Ma parlare di vini eccelsi mi da l’occasione di ricordare Beppe Rinaldi, un grande barolista mancato in questi giorni. Una persona alla quale ero molto legato. Ho imparato di più chiacchierando in cantina con lui, diventando in parte suo amico, che non in tanti super corsi. Forse proprio per questa mia estrazione umanistica. Si parlava molto di arte e di musica, una passione in comune. Io suono la tromba e si parlava molto di jazz. Mi fa piacere dire che uno dei vini che mi ha cambiato la vita è stato un Barolo Brunate – Le Coste dell’annata 1997. E il 1998 era ancora meglio e mi ha dato per la prima volta l’idea di avere sul palato un vino con più dimensioni e in grado di garantire stimoli sensoriali nuovi e diversi da tanti altri assaggiati fino ad allora.
Degusti tutti i giorni? Ci si allena alla degustazione e fino a che punto?
Degusto praticamente tutti i giorni. Quando insegno ad esempio. Alla scuola Alma di Colorno o all’università, mi capita di degustare e raccontare 6, 8, 10 vini a lezione ed è una condizione che mi risulta piuttosto agevole. Poi però ci sono situazioni in cui devo degustare 50, 80, 100 vini in una mattinata e ovviamente bisogna essere preparati sia mentalmente che fisicamente. Ho un mio schema. Devi andare a letto presto, devi svegliarti bene, mangiare le cose giuste. Devi fare la vita da professionista, direi quasi da atleta, anche se potrebbe far sorridere. Entrano anche in campo delle scaramanzie, delle abitudini alle quali non riesci più a fare a meno. Gestualità e ritualità che sono parte di un’organizzazione mentale e fisica appropriata della giornata prima della degustazione. Uno schema da seguire per sentirmi a mio agio. La degustazione è per me concentrazione e libertà di pensiero. Si tratta di lettura, interpretazione, traduzione. Occorre rigore ma anche creatività”.
Anche solitudine?
“Anche solitudine se si tratta di valutazioni per una guida. Allora la degustazione è per me solitudine, indipendenza di giudizio, presa di posizione. La degustazione in panel ritengo che tenda ad appiattire parzialmente le interpretazioni. Alla fine di una serie di assaggi puoi poi discuterne con qualcun altro e ci può essere un confronto. Ma nell’atto è bene essere isolati. Invece, fuori dalla professione, confesso che non riesco a bere il vino da solo. Mai.”.
“Il vino deve avere la bocca del luogo e il fegato dell’uomo che lo ha fatto … In fondo al vetro, voglio trovare il paesaggio del luogo in cui mi trovo” cir. Jacques Puisais – Creatore dell’Istituto francese del gusto.