Lo chef dell’Hotel e Ristorante alla “Vecchia Stazione di Asiago (Vi) si racconta e ci svela la sua storia e la prospettiva e la modernità della cucina dell’altopiano.
Guardare al presente e al futuro gastronomico dell’altopiano di Asiago (Vi) significa guardare, tra gli altri, alla cucina di Massimo Spallino, da anni chef del ristorante alla “Vecchia Stazione” a Roana. Formatosi alla scuola alberghiera di Recoaro (Vi), Massimo ha iniziato a praticare i fornelli sotto la guida dello chef Mario Baratto del ristorante “Remo” di Vicenza. Da li un continuo peregrinare su e giù per l’Italia per lavorare in cucine prestigiose oltre che nel banqueting e nel cattering. Da molti anni Spallino è membro della Compagnia degli chef, il team di professionisti che promuove le eccellenze italiane della cucina ed è rappresentante di categoria per la Confcommercio Mandamento di Asiago. La Vecchia Stazione è un locale storico dell’Altopiano, plurisecolare. Nasce nel 1910 con il nonno di Amanzio Mosele, suocero di Massimo, quando iniziarono i lavori di costruzione della ferrovia. Emigrato per lavoro in Canada venne avvisato dei lavori dalle sorelle e prese la prima nave per rientrare in quel di Asiago dove aprì un’osteria di fronte alla stazione. E’ iniziato tutto con un caffè ed un bicchiere di vino, è proseguito con qualche minestra e qualche piatto di pasta. Da li si è passati ai rinfreschi per gli sposi che attendevano il treno per il viaggio di nozze in pianura e alle camere che servivano per ospitare chi, trasferito altrove, aveva l’esigenza di tornare in altopiano. Dopo anni di pausa a cavallo della prima guerra mondiale hanno ripreso l’attività e non si sono più fermati. Negli anni, aumentando la richiesta, sono stati aggiunti piani , metri e stanze. Da due camere a trentasette, cento posti letto, piscina, centro benessere. “La svolta vera per quanto riguarda la ristorazione – ricorda Amanzio Mosele – è stata fatta nel 1993. E’ stato investito molto, rifatta una sala, c’era voglia di cambiare marcia”. Attualmente a gestire il tutto oltre ai coniugi Mosele ci sono i figli Michele ed Elisa, moglie di Massimo che guida la cucina da dieci anni. “Cerchiamo di essere sempre più aggiornati – sottolinea Massimo Spallino – e al passo con i tempi e le richieste di una clientela sempre più esigente. Siamo particolarmente interessati al mondo della produzione biologica dell’altopiano e alla grande e variegata realtà dei formaggi dove spaziamo dalla classica tosela fusa cotta sul burro come da tradizione, agli erborinati e stagionati dai mille profumi e sapori. L’importante è evitare la fuffa nel piatto che per me sono tutte quelle spume, schiume e schiumette che finiscono per coprire e svilire i sapori che invece dobbiamo esaltare nelle loro caratteristiche organolettiche. La mia è una cucina connessa con l’ambiente straordinario in cui vivo. Abbiamo materie prime di estrema qualità come le erbe che devono essere raccolte ed usate nel momento giusto dell’anno. Raccolgo molto nei boschi e nei prati: asparagi selvatici, farinelle (buonrnrico), rosole e fiordalisi. E poi i funghi, che conosco e adoro: dai porcini ai cantarelli, spugnole e trombette”.











La storia di Massimo in cucina nasce nel 1993 a Vicenza e il suo grande maestro e mentore, come detto, è stato Mario Baratto uno degli alfieri della cucina tradizionale vicentina e veneta. “Uno chef riconosciuto – ricorda Massimo – il primo a dirmi: “voi cuochi moderni non capite un c…! Ricordati giovane che la parola croccante “vol dir cruo” (significa crudo) e la parola delicato “vol dir desavio” (significa insipido, insapore)”. Dopo Baratto, Spallino ha lavorato in Sardegna, in Emilia Romagna, in Sicilia e su e giù per la provincia di Vicenza tra cattering, feste in villa e cerimonie. Da 12 anni è membro della “Compagnia degli Chef” e oltre ai fornelli della Vecchia Stazione si cimenta nel raccontare le sue peripezie culinarie in due blog: saporie.com, che è il blog di Conad, e sfizioso.com. E poi ci sono impegni come la banchettistica di Conad Italia e la partecipazione sistematica ad eventi come il Cous Cous Festival e l’Umbria Jazz. “Mi sono trasferito in altopiano nel 2006 ed ho scoperto una grande tradizione gastronomica con piatti che continuavano ad essere fatti come li preparava la nonna di mia moglie. Penso al coniglio e alle lunghe cotture in genere. Sono piatti che devono essere fatti come sempre punto. Le basi e le preparazioni devono essere quelle, poi magari la presentazione e l’impiattamento può risultare un po’ più moderno. E poi qualche novità che ho seguito e introdotto personalmente: la pasta formajo e pevare, una sorta di cacio e pepe fatta con i formaggi dell’altopiano; la sfogliatina con le mele, lo speck e l’asiago che è di una banalità mostruosa ma straordinaria per croccantezza, intensità ed equilibrio dei sapori tra il dolce, il salato e l’affumicato. Poi in listino abbiamo anche le foglie di cappero per le tartare, la battuta di gamberi di mazzara del vallo, ecc. Ma i cavalli di battaglia espressione del territorio e della sua storia e cultura culinaria sono così da sempre e tali devono rimanere. E d’altronde la mia offerta deve essere completa e contemplare i piatti della tradizione graditi al turista ma anche pensare ad una proposta che accontenti gli indigeni che non vengono da me a mangiare la tosela o l’asiago cotto. Ciò detto io mi considero un sostenitore del chilometro buono non del chilometro zero concetto che mi fa un po’ sorridere e che fatico a comprendere. E il chilometro buono è la stagionalità a qualsiasi latitudine. Capisco possano esserci valutazioni sulla sostenibilità, sull’impatto ambientale eccessivo che si verifica con l’acquistare, trasformare e proporre materie prime che hanno fatto il giro del pianeta. Ed è giusto possa diventare un parametro di valutazione. Pensare però che il chilometro zero possa essere il presente e il futuro della ristorazione a prescindere dalla stagionalità, dalle caratteristiche e dalla vera qualità della materia prima, anche no. Conta trasmettere al meglio la qualità intrinseca di quanto proponi. Ad esempio il Caseificio Pennar produce un formaggio particolare che si chiama Grunalpe che viene fatto con il latte estivo proveniente dalla parte bassa dell’altopiano di Asiago. Il fresco dura novanta giorni poi il formaggio è finito e non se ne parla più per nove mesi ed è un peccato. Ma è un prodotto straordinario: erbaceo, amarognolo, lungo in bocca. E’ un esempio di chilometro buono per come lo intendo io.






Dove ti vedi tra 5 o 10 anni in rapporto al ristorante e in rapporto alla tua cucina?
“Mi vedo dove sono e a formare i giovani che vogliono fare questo lavoro. E dopo spero continuino queste soddisfazioni tra ristorante, eventi di promozione dell’altopiano e delle sue prelibatezze, formaggio Asiago in primis che auspico continui a lavorare col livello di qualità raggiunto e riconosciuto da anni. Proprio per promuovere le prelibatezze dell’Altopiano stiamo pensando ad un finger che si chiamerà Reggenza e avrà un ingrediente per comune. Registreremo la ricetta e la collocheremo presso tutte le aziende di distribuzione di tutti e sette i comuni. Nell’altopiano ci sono aziende importanti in grado di fornire materie prime di qualità agli esercenti locali e a tutta la pedemontana. Mi viene in mente un allevatore di bovini di Lusiana che ingrassa il black angus con la linea vacca – vitello a monta naturale”.
Quante le difficoltà con la pandemia? Com’è stato l’ultimo anno e mezzo?
“Straordinario perché dopo 28 anni che faccio questo lavoro sono riuscito ad avere tempo per pensare e progettare. Il covid ha fatto male, in tutti i sensi, ma se devo trovare anche qualcosa di buono lo vedo nella costrizione a trovare del tempo per fermarmi a riflettere e pianificare il futuro prossimo. Grazie a questo tempo di chiusure e restrizioni è nato “Altopiano in punta di dita”, festival locale del finger food e sono nati piatti nuovi che ho messo in listino. Se penso a mio suocero che di fatto è nato e sempre vissuto in Albergo, la prima pasqua e il primo natale della sua vita seduto a tavola in famiglia le ha fatte nel 2020.
Vini, birre, bevande?
E’ un mondo che mi piace. Mi piace il mondo delle cose fatte bene che siano venete, italiane, francesi o altro. Io mi servo da chi ha qualità da comunicare e per questo il nostro vino spazia tra le eccellenze del mondo. Per restare all’ altopiano mi piace il progetto della birra cimbra prodotta dall’azienda agricola Bisele e fatta con l’orzo e il luppolo coltivati in Altopiano tra Canova e Gallio e con l’acqua della Val Renzola.