Quale vino di laguna? Esistono da anni produttori conosciuti e rinomati che hanno modellato vini rivendicati come “Vino da Tavola” e fatto impresa. Ed esiste un Consorzio, il Consorzio Vini Venezia titolare della “Doc Venezia” il cui areale di pertinenza si estende a tutto il perimetro cittadino e lagunare, che dal 2010 sullo studio del germoplasma di piccoli e vecchi vigneti sparsi tra conventi, broli e giardini veneziani e sulla riscoperta degli autoctoni, ha pubblicato testi magnifici e indicato una prospettiva imprenditoriale. Tutti più o meno vorrebbero evidenziare in etichetta il legame con Venezia e il “terroir” per quanto possibile. La sintesi? Una nuova denominazione “lagunare” o una o più menzioni toponomastiche aggiuntive, cosiddetta “vigna”, alla doc Venezia: “Laguna” per tutti o “Mazzorbo”, “Torcello”, “Sant’Erasmo”, “Vignole”, ecc.
Venissa e Dorona. Nel 2002 l’imprenditore trevigiano Gianluca Bisol ha iniziato a scavare nella storia e nella tradizione veneziana del vino e individuato alcune viti della varietà a bacca bianca dorona. “In particolare – sottolinea Matteo Bisol, figlio e direttore del ristorante e dell’azienda vitivinicola Venissa a Mazzorbo – ha approfondito lo studio della produzione vinicola veneziana e appreso che, pur parlando di piccole produzioni, la maggior quantità di uve veniva coltivata e vinificata nelle isole della laguna nord, fuori dal centro cittadino più dedito all’amministrazione, al commercio e alle attività artigianali. Volendo raccontare e contribuire alla conservazione di questa storia e di queste tradizioni cresciute in simbiosi con una città unica ed irreplicabile altrove, siamo partiti con l’attività rilevando la cantina “Scarpa Volo” all’isola di Mazzorbo, e abbiamo dato vita progressivamente all’attuale impianto di 0,8 ettari di Dorona”. Un’uva che nella prima cernita viene trasformata in Venissa, tremila bottiglie da 0,50 l. di vino tendenzialmente orange e ossidato, complesso e impegnativo, frutto di una lunga macerazione sulle bucce (tra i venti e i trenta giorni) e destinato ad affinarsi almeno quattro anni. E nella seconda selezione diventa Venusa bianco, 3000 bottiglie da 0,75 l., vino più conviviale, semplice di beva, ottenuto con una macerazione di un paio di giorni e che sta in affinamento due anni. A queste si aggiunge il Venusa rosso, uvaggio di uve a bacca rossa, in particolare merlot, lavorate su una superficie vitata di due ettari e mezzo nell’isola di Santa Cristina. Il problema dell’acqua alta ha trovato per loro una duplice risposta: “un muro che circonda l’impianto a Santa Cristina – sottolinea Matteo Bisol – e la dorona, varietà particolarmente resistente che pur sommersa dall’acqua di mare resiste molto bene. La capacità di assorbire poco il sodio è una sua caratteristica e anche con l’ultima acqua alta alla fine abbiamo dovuto sostituire pochissime piante, sempre a piede franco. Parliamo di vigneti resilienti”. Entrambi gli impianti, secondo Bisol, non sono espandibili, ma esistono zone tra Venezia e isole che potrebbero essere destinate a vigneto. “Le isole di Venezia hanno tutte una loro storia ed evoluzione geologica particolare con conformazioni e caratteristiche diverse da terreno a terreno. Per noi zone vitabili potrebbero essere alcune della cosiddetta “Venezia nativa”, compresa tra le isole di Mazzorbo, Torcello, Sant’Erasmo e Vignole. Sempre e comunque spazi limitati e iter amministrativi impegnativi. L’importante è che siano frutto di un agricoltura sostenibile. Il nostro vino viene rivendicato “Vino da Tavola”, aspetto non così importante per il mercato e per il brand che abbiamo adottato. Sarebbe bello però che un giorno ci potesse essere una denominazione d’origine specifica per Venezia e laguna a salvaguardia della sua storia e tutelando in primis chi il vino a Venezia e isole lo produce veramente. Credo ne gioverebbe anche la ristorazione che in questi anni ha visto accrescere il livello generale ed è molto attenta alle produzioni locali a partire dalle verdure fino al pescato. Per quanto ci riguarda, al momento vinifichiamo nei colli euganei anche se il progetto nostro è la costruzione di una cantina in laguna sul lato della terraferma. Stiamo cercando”.
CONSORZIO VINI VENEZIA. Una ricerca abbastanza recente dell’Università di Padova e Milano, del Consorzio Vini Venezia e del Centro di ricerca per la viticoltura di Conegliano (Tv) mirata al recupero, alla caratterizzazione, salvaguardia e valorizzazione della biodiversità viticola veneziana ha permesso di recuperare materiali viticoli ricampionati per la realizzazione di due vigneti, uno a Torcello (Baslini) e uno nel brolo della chiesa dei Carmelitani Scalzi. Due le ricognizioni svolte nel 2010 e nel 2012 per definire la provenienza, l’identità e l’entità del germoplasma viticolo della laguna di Venezia. Undici le località coinvolte tra la laguna nord (Torcello, Vignole, Sant’Erasmo), Venezia e laguna sud (Lido Alberoni, San Lazzaro degli Armeni e Pellestrina). Da questa ricerca sono stati ottenuti 26 profili molecolari 23 dei quali corrispondono a varietà già identificate (21 di vitis vinifera). Prevalenti quelle a bacca bianca: albana, dorona, garganega, glera, malvasia istriana, moscato giallo, tocai friulano, trebbiano toscano, trebbiano romagnolo, verduzzo trevigiano e vermentino; a bacca nera: marzemino, merlot, raboso veronese. “Questo recupero – sottolinea Stefano Quaggio, direttore del Consorzio – effettuato su viti trovate e recuperate che venivano allevate per scopi quasi esclusivamente ornamentali, è servito per capire la storia e la provenienza di quanto avevamo in casa. Credo che oggi, esempi ci sono, ci sia modo di fare impresa anche all’interno delle isole di Venezia sapendo che bisogna puntare sulla qualità e sull’immagine più che sulle quantità. Ci sono tutte le possibilità per valorizzare queste piccole superfici e per trovare insieme e all’interno della Doc Venezia una nomenclatura con menzioni, previste dalla normativa (vigna, ndr), che identificano con più precisione il luogo di provenienza dell’uva e del vino sia esso “Torcello”, “Sant’Erasmo” “Mazzorbo” o altro. Produttori della terraferma veneziana ce l’hanno già chiesto. Un’altra strada come la creazione di una nuova doc o docg “lagunare”, pur praticabile, la vedo complessa da percorrere. Va sottolineato che nell’elenco delle varietà idonee ad essere coltivate e vinificate di competenza sono comprese anche le variet ”.
L’ORTO DI VENEZIA. Sant’Erasmo ha una storia di produzioni orticole rinomate da secoli e i contadini del posto hanno continuato a produrre verdure come un tempo, secondo tradizione, e il carciofo violetto, che è la produzione più rinomata, ne è esempio radioso. “E’ un posto meraviglioso – sottolinea Michel Thoulouze, titolare dell’azienda vinicola L’Orto di Venezia. Per acquistare l’attuale proprietà, quindici anni fa circa, con l’immobile da restaurare profondamente abbiamo impiegato tre anni. Ma ero convinto ci fossero tutte le condizioni per fare un gran vino in questi terreni che in vecchie mappe del settecento venivano definiti “vigna del nobil’uomo”. Il terroir, sostiene Michel, è la grande risorsa di quest’isola, con suoli particolari nei quali ho ricostruito il sistema di drenaggio e piantato le viti a piede franco”. Produce un vino bianco da uve malvasia istriana e vermentino, persistente e di profonda mineralità con sentori iodati, di salsedine in un terreno argilloso e calcareo con sedimenti marini (conchiglie, ecc.) e dolomitici. Un uvaggio che sta dieci mesi in acciaio e due anni in bottiglia prima dell’immissione sul mercato. “Ci piace lavorare bene in vigna senza forzare e trattare. Se la uva è bella il vino sarà buono”. La resa su quattro ettari è di 35 ettolitri per ettaro per un numero di bottiglie che varia dalle 12 alle 15000 a seconda delle annate a queste si aggiungono trecento bottiglie circa di magnum che vengono lasciate affinare per 5 anni dentro a un sandalo (tipica imbarcazione veneziana), affondato in un punto segreto sul fondale della Laguna. Per quanto riguarda la possibile rivendicazione a Doc invece che “Vino da Tavola “non credo – sostiene – aggiungerebbe qualcosa di così significativo alla nomea e riconoscibilità del mio vino”.
LAGUNA NEL BICCHIERE. Renzo De Antonia, architetto e insegnante in pensione, è il presidente di un’associazione culturale che si chiama “Laguna nel Bicchiere”. Fondata nel 2008, si occupa del recupero delle vigne abbandonate in laguna affidate da privati o istituzioni pubbliche. Non hanno vigneti di proprietà, e vinificano nell’isola di San Michele nella vecchia cantina del millecinquecento dei frati francescani. “L’associazione nasce da un’esperienza scolastica del vecchio fondatore e presidente Flavio Franceschet mancato tre anni fa al quale sono subentrato in quanto vice. Si trattava di una scuola media dove insegnavamo entrambi e insieme ai ragazzi, quasi per gioco, si faceva il vino pigiato con i piedi. Lo scopo era far capire ai ragazzi di Venezia che in laguna non c’erano solo mare e pietre ma anche orti e campagne. Nel 2008 Flavio ebbe contatti con i tre frati rimasti nell’isola di San Michele che gli comunicarono che l’ordine aveva deciso di chiudere il convento e che per questo cantina e vigneto sarebbero stati abbandonati. A quel punto, assunta una veste giuridica idonea, Fabio fece domanda al Comune per avere in concessione cantina e vigneto cosa che accadde e da allora continua”. Alla fondazione dell’associazione parteciparono anche viticoltori e ristoratori e con l’apporto di questi personaggi la qualità del vino è sempre aumentata. In seguito hanno preso in gestione altre vigne oltre a San Michele dove coltivano vigne piuttosto vecchie e produconovino bianco pigiando coi piedi o con una piccola raspatrice soprattutto uve dorona, malvasia istriana e glera. Altre vigne si trovano all’isola della Giudecca all’interno della casa di riposo (vino rosso soprattutto da uve cabernet franc, cabernet sauvignon, lambrusco marani), una a Malamocco (vino rosso soprattutto da merlot e bianco da bianchetta trevigiana), una all’isola delle Vignole (vino bianco soprattutto da verduzzo, poi glera e dorona) e una a Sant’Elena nel vecchio convento francescano che gestiscono da quest’anno senza sapere ancora con esattezza le varietà per quanto predomini la bacca rossa. “Le barbatelle le facciamo da talea piantata così com’è nel terreno e con queste, a piede franco, sostituiamo quello che è mancato e penso in particolare ai danni avuti con l’acqua alta del 2019. Sono tutti vigneti molto piccoli dai quali se ne ricava una botte da trecento ettolitri l’uno nelle annate buone. Non esiste il monovitigno e vinifichiamo in uvaggio con quello che c’è. Non trattiamo con niente se non pochissimo rame e propoli e in fase di vinificazione lasciamo fare ai lieviti indigeni e alla fine non aggiungiamo solforosa. Se un anno va male amen. Tutto il vino che produciamo non è soggetto a vendita e viene consumato dagli associati o lo utilizziamo nei nostri eventi per promuovere le adesioni. Va sottolineato che Venezia è piena di giardini diversamente a quanto solitamente si pensa e spesso in questi si trovano vigne, anche di uva da tavola. E ci sono diverse realtà che storicamente fanno il vino, penso alle suore e ai frati della Giudecca ma poi ci sono realtà più note e consolidate come i francescani di San Francesco della Vigna (il vigneto più antico di Venezia oggi gestito dai Marzotto di Santa Margherita) o i carmelitani scalzi della Chiesa di Santa Maria di Nazareth a Cannareggio”. La loro attività resta ancora molto didattica tant’è vero che ogni anno lavorano con oltre duecento bambini su programmi pluriennali dove si occupano di agricoltura, in particolare vite, olio, pane, erbe aromatiche. “Un’altra cosa che ci riempie di orgoglio è l’essere stati soci fondatori di un’associazione che si chiama “Urban Vineyards Association” nata per promuovere i vigneti di città. Per ora sono solo realtà italiane e francesi. Quelle italiane, tra gli altri, siamo noi, San Francesco della Vigna con Santa Margherita, poi c’è la vigna di Leonardo a Milano, la Vigna della Regina a Torino, una Vigna a Siena e la Vigna del Gallo nell’orto botanico di Palermo. In Francia il Clos Montmratre a Parigi, la vigna dei papi di Avignone e la vigna del Clos de Canuz di Lione. Il covid ha bloccato questa attività che presto però riprenderà ed è previsto l’ingresso di Berlino ed Amsterdam. Due gli obiettivi di questa realtà: farci conoscere per poter accedere a finaziamenti europei e poi, considerato che il turismo legato ai prodotti agroalimentari, vino in primis, sta aumentando, ci piacerebbe costruire degli itinerari europei che contemplassero la visita alle città e ai vigneti urbani. Il vino di Venezia e isole può avere un senso e una prospettiva anche perché il nome Venezia ha un richiamo che fa vendere qualsiasi cosa. Se poi parliamo dove recuperare superficie vitata penso a Sant’Erasmo dove ci sono ettari di terreni abbandonati e qualcosina alle Vignole. Che i vini di laguna possano avere uno spazio nelle carte della ristorazione che conta lo dimostrano due imprenditori privati i cui prodotti vanno nel mondo. Il nostro compito rimarrà sempre e solo quello di tenere in piedi questa cultura e questa tipicità sperando che produttori e imprenditori ne vedano il potenziale e possano investirci in maniera adeguata e rispettosa. Un contributo a Venezia per aiutarla a scoprire potenzialità che esulino dalla monocultura turistica”.