Gli ambienti lagunari, anfibi, luoghi di metamorfosi naturale e artificiale per definizione, sono il compendio, il risultato di un processo di trasformazione secolare e in perpetua evoluzione. Archetipo di mutamento per definizione. Luoghi di scambio tra terra e acqua; tra acqua dolce ed acqua salata. Dimostrazione che “tutto scorre” e che “non si può entrare due volte nello stesso fiume”. Insieme una condanna e una salvezza: il divenire (antropico, giuridico, climatico, ecologico, idrogeologico), come logos, punto fermo, certezza esistenziale. Ineludibile. Ma anche come mira, tensione verso l’armonia spirituale. Venezia e la sua laguna sono tutto questo, da secoli, checché ne dicano il Mose, lo spostamento e lo scavo di fiumi, canali, cippi confinari. Farsene una ragione aiuterebbe chi, come Carlo Marchesi, comproprietario di valle Ca’ Da Riva Perini, allunga uno sguardo rapito e languido sulle bellezze della sua valle quasi a voler mummificare Venezia, la sua laguna, la sua immanenza. E custodirla eterna e immutabile. Come un amante tradito dal tempo e dallo spazio prima ancora che dagli uomini.
Con lui parliamo della prima valle da pesca della laguna nord, grande 300 ettari equamente divisi tra acque e terre. Proprietà che inizia ad Altino e arriva, attraverso il canale Siloncello, in prossimità dell’isola di Torcello. In mezzo un’isola, tra le tante, dove nel Cinque-Seicento i primi possidenti innalzarono il classico casone, restaurato nei secoli, e crearono le condizioni e i manufatti necessari per la tipica pesca di valle. Cent’anni di proprietà iniziata con il nonno, Piero Marchesi, agli inizi del 1900 e proseguita fino ad oggi con i suoi discendenti. «Le valli da pesca — sottolinea il nipote Carlo Marchesi — sono state nel tempo quelle passioni, per certi aspetti esclusivi, che alcune famiglie facoltose potevano permettersi per il diletto della caccia, della pesca, della laguna da vivere e amare. E in questo senso va inquadrata la disponibilità a mantenere e preservare dall’abbandono un’attività ricreativa, non certo economica, che diversamente la relegherebbe ad azienda in perdita costante e di difficile prospettiva».
Tre chiaviche delimitano i laghi di valle, due di acqua salata e una parzialmente dolce. Buona la salinità (18-20 parti per mille), le condizioni sono idonee all’allevamento puramente estensivo di branzini e cefalame (lotregani, volpine, ecc…), più delicato quello delle orate. Si semina solo selvatico pescato da pescatori professionisti (novellanti) alla fine dell’inverno lungo le spiagge di Chioggia e Burano e che poi si alimenta naturalmente, nessun mangime. «Non fosse per i cormorani, vera e propria calamità naturale, le cose andrebbero in maniera piuttosto ordinaria. Ma questo è un predatore incredibile per la capacita di inghiottire pesce oltre che di distruggerne. Quest’anno saremo costretti a mettere delle reti di copertura nei ricoveri invernali (peschiere) con un ulteriore aggravio di costi. I piani di contenimento della popolazione di cormorani (ancora non attuati), in continuo aumento, non riusciranno ad avere una efficacia tale da poter garantire la produzione sull’attività di pesca».
Ogni anno in stagione vengono immessi circa 40.000 orate, 20.000 branzini e 100.000 cefali, portando a maturazione soltanto il 40% del pesce per un ammontare di 40-50 kg circa ad ettaro di acqua (ricordiamo che alcuni studi hanno dimostrato che il pareggio dei costi nelle valli viene raggiunto con un quintale di pescato per ettaro di superficie utile aziendale). Due dipendenti fissi, tra i quali il capovalle, e alcuni collaboratori occasionali, la manodopera necessaria ai lavori di allevamento e manutenzione.
«Trent’anni fa ci si avvicinava ad un quantitativo di pescato vicino al quintale/ettaro, con un costo al chilo dei branzini che si avvicinava, al produttore, alle 30.000 lire. Oggi conferiamo all’ingrosso ai mercati di Chioggia o Venezia (Tronchetto) per un importo pari a 8 e/kg per i branzini e 2 e/kg circa per i cefali. Cifre irrisorie per supportare i costi. Eppure, dopo il pescato di mare, in un’ipotetica scala di qualità del pesce veniamo noi come vera eccellenza. In definitiva, parliamo ad oggi di un giro d’affari sviluppato dalla valle di 40.000 e/anno in tutto, con costi che sono il triplo, almeno».
Carlo Marchesi lavora come imprenditore agricolo nelle proprietà di famiglia e, se parliamo di futuro della valle e di vallicoltura, si incupisce. «Non riesco a dare un senso al mantenimento di questa situazione, se non legando l’attività all’indotto turistico e ricettivo che Venezia in quanto tale è in grado di sviluppare. Ma preferisco non pensarci. Fare squadra con le altre valli? Impossibile. Ognuna ha la sua specificità e ogni vallicoltore è geloso della sua realtà. Impossibile anche pensare di riconoscerci e proporci sul mercato con un marchio ombrello, pubblico o privato che sia».
Talmente diversa la storia da valle a valle, così come l’annosa questione delle proprietà e dei soldi chiesti dallo Stato ai proprietari come indennità di occupazione prolungata di un bene pubblico (l’acqua) demaniale.
«Nella fattispecie valle Ca’ Da Riva Perini è una delle poche realtà vallive al di fuori della Linea di Conterminazione Lagunare istituita dalla Repubblica Serenissima di Venezia nel XVIII secolo per delimitare ciò che era di competenza del Magistrato alle Acque e ciò che invece doveva sottostare al Genio Civile. Tale posizione non le ha dato nei secoli la possibilità di aderire a finanziamenti per opere di miglioramento e manutenzione della proprietà, perché al di fuori del perimetro che nel 1991 venne modificato includendola. Tale modifica portò con sé anche una presunta demanialità (ad oggi ancora irrisolta) dell’acqua al suo interno. Qui sta l’errore: l’acqua e le terre emerse all’interno della valle sono un tutt’uno, così come unico deve essere il soggetto deputato alla tenuta ed alla manutenzione».
Gian Omar Bison