Acquisita dai baroni Franchetti di Reggio Emilia agli inizi dell’Ottocento, Valle Grande San Gaetano a Caorle (VE) è da tempo di proprietà dei Poja di Valdagno (VI), eredi di Giuseppe — mancato di recente —, che nel 1973 ne prese in affitto la gestione per poi acquistarla un po’ alla volta nell’arco di trentacinque anni insieme a buona parte dei terreni limitrofi. Matteo, in particolare, lavora in valle e nell’azienda agricola dal 1999, data del suo trasferimento a Caorle dove tutt’ora vive a Cà Italia, caseggiato non molto lontano dalla tenuta. Parliamo di una valle fuori dalla laguna di Venezia, che si estende per circa 500 ettari occupati per metà circa da laghi a basso fondale e canali di diversa grandezza. Lo scambio idrico avviene attraverso quattro chiaviche principali che comunicano con il canale Nicesolo in prossimità del suo sbocco in mare presso porto Falconera. «È una valle anomala — evidenzia Matteo Poja — con poca acqua e tanta terra, tanta vegetazione. E la tipologia d’acqua è piuttosto dolce al punto da impedirci di allevare orate che hanno bisogno di una spiccata salinità. Per il resto ci sono tutti gli altri pesci tipici di valle come il branzino, i cefali, le anguille. Un allevamento estensivo dove si introduce il pesce piccolo che non viene alimentato e che per questo cresce lentamente con un ciclo vitale piuttosto lungo. Un pesce che ha caratteristiche simili al pesce selvatico e che non è facile da catturare».
Il pesce di Valle Grande viene completamente conferito all’ingrosso. «E da qui — sottolinea Poja — come tutto il pesce delle nostre valli venete, verso i mercati ittici e fino agli scaffali delle pescherie o alle cucine della ristorazione. Purtroppo non se ne riconosce e non se ne valorizza appieno l’originalità, la freschezza tipica del chilometro zero o quasi, la diversità organolettica che dovrebbero caratterizzarne il prezzo, la competitività tra i consumatori e quindi la giusta redditività per i vallicoltori».
Matteo Poja è anche responsabile per Confagricoltura Venezia del comparto itticolo, categoria che riunisce tutte le valli da pesca della regione. E da tempo si scontra con la difficoltà a fare squadra tra vallicoltori, per arrivare a disporre tutti insieme di una massa critica di prodotto tale da avere nei confronti dei grossisti un maggiore potere contrattuale e con la riottosità diffusa a costruire un brand collettivo che li identifichi in maniera precisa e riconoscibile. «La nostra vallicoltura è molto penalizzata dagli allevamenti greci e croati. In generale non possiamo confonderci né competere con chi fa allevamento intensivo. Hanno tempi più brevi di allevamento, minore mortalità, meno problemi nella cattura e anche dalla predazione.
I cormorani in particolare fanno disastri. Trent’anni fa erano rarissimi, oggi sono decine di migliaia nell’area alto adriatica. Non si possono abbattere e la Regione Veneto non ha fondi a sufficienza per pagare i danni. Riescono a predare anche pesci di 3/4 ettogrammi e stanno decimando anche gli stock ittici esterni alle valli. Probabilmente l’incremento demografico della specie è stato causato da necessità alimentari che li ha fatti migrare verso areali più meridionali e dalla protezione imposta in ambito europeo considerato, che fino a pochi anni fa venivano distrutti molti nidi in Nord Europa per utilizzarne le uova nell’industria cosmetica».
E poi c’è il problema della comunicazione, della promozione corretta e funzionale del pesce di valle. «Dovremo promuovere di più e meglio tipologie di pesci come i cefali (lotregani, volpine, ecc…) che non si conoscono più e che invece costano mediamente poco e stanno a pieno titolo nella nostra migliore tradizione culinaria» sostiene Poja. «Per fare tutto questo dovrebbe esserci un comune sentire tra allevatori che invece manca. Su venti vallicoltori (23 le valli) ai direttivi ci si trova sempre in tre, massimo quattro». Se a questo si aggiunge l’aumento della piovosità, il progressivo interramento del Nicesolo degli ultimi anni (profondo fino a 18 metri a cavallo della seconda guerra mondiale) e il sensibile calo di salinità nei bacini vallivi con conseguenze nell’habitat e nella gamma di specie ittiche ospitate, le difficoltà proprio non mancano.
Ad oggi in Valle Grande, come detto, risulta impossibile allevare l’orata ed è molto difficile salvare i branzini da malattie e parassiti. Diversamente causteli e volpine crescono bene e in fretta grazie all’abbondanza di nutrienti.
E se oggi si pescano a malapena poche decine di quintali di pesce “povero”, l’obiettivo resta quello di arrivare in un futuro prossimo a produzioni maggiori confidando in un riconoscimento adeguato da parte dei mercati. «Il mio pescato annuale si aggira attorno ai venti quintali. Pochissimo — precisa Poja — rispetto alle potenzialità che mi consentirebbero di arrivare anche fino a cinquanta chilogrammi ad ettaro. Ad arrivare almeno ai cento quintali.
Nel frattempo i costi di manutenzione sono costanti e sempre impegnativi. Basti pensare alla cattura: noi non peschiamo nei lavorieri e con le chiaviche ma con le reti costringendoci ad un lavoro più lungo e dispendioso».
Complessivamente la proprietà Poja poggia su 800 ettari (500 di valle) e tutti i terreni sono coltivati a seminativi (frumento, mais, soia) da cui deriva la reddittività complessiva dell’azienda agricola. E a questa ha aggiunto il caseggiato di Cà Pescina di recente acquisizione. Inoltre, in Valle Granda si può cacciare. Lo fa Matteo e con lui gli amici cacciatori. «Questa valle — conclude Poja — è famosa, tra l’altro, per i soggiorni di Ernest Hemingway, amante di caccia e pesca, che proprio a questi luoghi si ispirò per scrivere il romanzo “Di là dal fiume e tra gli alberi”».
Gian Omar Bison