Non si può dire che Oliver Martini, figlio del proprietario di Valle Pierimpiè, cinquecento ettari a Campagna Lupia (VE), non abbia le idee chiare. In particolare quando indica nella difficoltà a fronteggiare la predazione perpetrata negli ultimi anni dagli ittiofagi uno tra i motivi principali, se non il principale, che frenano le valli da pesca della laguna di Venezia dall’investire risorse per allevare estensivamente un quantitativo di pesce necessario al raggiungimento dell’equilibrio tra costi e ricavi. Non solo. «Manca un sostegno pubblico vero e tangibile alle aziende vallive — puntualizza Martini — che avrebbero bisogno di un contributo simile a quello che è la PAC per l’agricoltura. La vallicoltura, attività agricola a tutti gli effetti, non gode di alcuna misura di sostegno e rischia di fatto un decadimento irreversibile. I vallicoltori gestiscono queste aree lagunari sottraendole ad un degrado inesorabile qualora non vi fosse, all’interno delle stesse, una gestione attiva volta al mantenimento e alla conservazione ambientale».
Le valli erano un tempo luoghi all’interno dei quali la produzione ittica permetteva di coprire i costi di gestione tramite la vendita, nei mercati locali, di specie autoctone come orate, branzini, cefali e anguille. «Oggi — continua Martini — causa l’avvento dei predatori protetti quali cormorani, gabbiani reali e aironi, queste aziende non sono più in grado di sostenere le loro produzioni. Si sta perdendo la storia e la cultura di queste aziende perché le amministrazioni pubbliche non ci hanno mai ascoltato e capito pienamente. O meglio, non si è avuto il coraggio, ad oggi, di emanare provvedimenti concreti, concedendo alle aziende la possibilità di difendersi da questi predatori con l’unico metodo rafforzativo efficace in questi casi, cioè l’abbattimento pianificato e mirato dei predatori durante tutto l’arco dell’anno, senza pregiudizi ideologici ambientalisti».
Alcune aziende, come Valle Pierimpiè (10 persone impiegate), per fronteggiare questa piaga data dai predatori hanno messo in atto forme di difesa passiva (che non comportano l’abbattimento dei predatori) coprendo con reti chilometri di canali e tutte le peschiere di sverno, ove il pesce si raduna nel periodo invernale. «Ma noi non possiamo coprire — rileva Martini — 500 ettari di specchi acquei estensivi! Nell’ultimo anno, tra gli interventi in Valle Pierimpiè, il solo ripristino del colauro (tratto del canale ove il pesce si raduna per la cattura) e delle arginature esterne ha avuto un costo di alcune decine di migliaia di euro. E ogni anno, per le semine, vengono investiti 50-70.000 euro sperando di portare a maturazione il 50% del pesce seminato. Purtroppo questo dato, causa i predatori ittiofagi, viene regolarmente disatteso, con tassi di ricattura dal 10 al 30% che risultano totalmente insufficienti al raggiungimento della parità di bilancio dell’azienda».
Un problema, quello dei cormorani, molto sentito anche da altri vallicoltori, come confermato dagli stessi Matteo Poja, responsabile per l’itticoltura di Confagricoltura Venezia e titolare di Valle Grande San Gaetano a Caorle (VE), e Gualtiero Ranzani, di Azienda Marina Averto a Campagna Lupia (VE). «Le valli — ritiene Martini — stanno peggio e producono meno di quindici anni fa. Nonostante questo, se i vallicoltori non presidiassero queste zone con continui interventi per le arginature, gli scavi dei canali, la regimazione delle acque, lo sfalcio e le potature delle piante, la messa in asciutta di alcune zone specifiche ecc…, le valli si trasformerebbero presto in stagni paludosi e putridi, perdendo di fatto ogni valenza ambientale e faunistica».
Come emerso da un recente convegno tenutosi a settembre 2016, promosso dal Consiglio Regionale del Veneto, sui “risultati della corretta gestione del patrimonio faunistico e ambientale”, all’interno di queste aziende sostano in media circa 84.000 acquatici censiti a fine stagione venatoria dalle amministrazioni provinciali. E questo fa del Veneto la regione più importante d’Italia per la presenza di questi migratori, che sostano e svernano «anche grazie all’efficace gestione che i vallicoltori fanno delle loro aziende», come, secondo Martini, è stato riconosciuto. «Proprio dai dati del convegno è emerso che l’insieme delle operazioni di carattere produttivo-ambientale posto in essere dalle valli del Veneto comporta un costo di gestione annuo di circa 600 e/ha, con punte che arrivano a 1.000 e/ha. Il costo totale viene quindi stimato in 12,9 milioni di euro, in gran parte destinati ad azioni di conservazione e gestione dell’ambiente, e per circa un terzo costituiti da reddito di lavoro locale. Sono oltre trecento i dipendenti addetti interni alle valli. Il modello di vallicoltura veneta si sostiene grazie agli interventi delle imprese private che si realizzano senza gravare sul bilancio pubblico, rispetto a quanto mediamente accade nelle zone dove non si effettuano analoghi interventi e dove manca un’analoga gestione venatoria. E pensare che qualche decennio fa si producevano 20 tonnellate solo di anguille. Ora, per pareggiare i costi, dovremmo raggiungere una produzione minima di un quintale di pescato all’anno per ettaro». Dato costantemente disatteso.
Anche Oliver Martini, così come i colleghi, ritiene complesso fare squadra tra vallicoltori. Resta il fatto che certificare questo storico modello produttivo, condividere un brand che identifichi il pesce di valle e proporsi in maniera uniforme e con maggiore massa critica alla distribuzione organizzata, come sostenuto anche da Matteo Poja (La tenuta di Valle Grande a Caorle, in Il Pesce n. 1/2017, pag. 22), può essere un obiettivo comune per rilanciare un prodotto unico e di qualità riconosciuta.